Palazzo dell’Agricoltura - Tempera ad uovo

Anni 1954-56

Realizzata nella Sala Consiliare dell’ala nuova dell’edificio, fu elaborata nella prima metà degli anni ’50 dopo un periodo di silenzio e ricerca, dedicato alla pittura da cavalletto, al mosaico, alla modellazione e ad incarichi architettonici.
Con quest’opera che illustra la vita agreste, si apre una nuova stagione: dalle prime realistiche realizzazioni, legate alla pittura sociale, e da quelle ispirate alla Arte Mediterranea, superata la drammatica crisi del periodo bellico, ora la sensibilità si esprime con libertà e nuovo entusiasmo e l’interiorità viene allo scoperto con soluzioni che si distaccano dalle precedenti; in un’ atmosfera più serena, l’artista si apre al dialogo con se stesso e si lascia andare effondendo il suo innato lirismo.
Realizzata con la tecnica della tempera d’ uovo che consente ripensamenti nella stesura del colore, il problema cromatico vi si impone in modo decisamente più incisivo, registrando l’approdo a più vibranti tonalità ed accordi e l’affermarsi di una luminosità che successivamente diventerà dominante.
Il linguaggio è umile ed intimo: la prevalenza e gradazione dei toni ocra, l’assorta variazione delle tinte autunnali sulla scala delle terre e dei verdoni si addice ad un mondo semplice ed essenziale; il colore serve a commentare il tema ed è illuminato da campiture chiare che rendono palpitanti i bruni e i rossicci. Concessioni alla fantasia e guizzi raffinati i cilestrini che smaterializzano le cose e alleggeriscono la naturalezza delle tinte. Contribuisce al tono raccolto la presenza di volti dai tratti familiari e di semplici oggetti quotidiani, su cui il pennello sembra indugiare come sotto la suggestione delle intense immagini del Neorealismo. Pacata scioltezza di linee e misura cromatica confermano il ricorrente carattere di razionale equilibrio della pittura di mio padre.
Il riferimento alla tradizione del mondo contadino è storia di civiltà che nella figurazione per la sua ritualità diventa eterna presenza di valori, resi con essenzialità nella sobrietà e nella disposizione lineare delle scene, come in una sequenza. La geometria piana prevale sulla spazialità e l’opera si sviluppa entro spazi appena avvertibili prospetticamente, incorniciati come formelle; li lega una continuità che pone i gruppi in relazione, in un dialogo che dà unità alla figurazione; non racconto episodico, ma canto corale in cui l’artista prolunga se stesso.
Lo potenzia e commenta il paesaggio vegetale che in questa composizione è protagonista e contribuisce a creare quell’atmosfera di sacralità intorno alla storia dell’opera umana sintonizzata sul ritmo vitale della natura. Nelle composizioni del periodo novecentista l’albero era isolato, apparizione surreale, emblema metafisico ed ermetico della solitudine umana; in quest’opera per la prima volta il verde fresco dei boschi fa da scenario, incornicia ed esalta le figurazioni con tonalità tenere, brillanti, cupe, incastonandole. Insieme agli strati rocciosi digradanti, funge da raccordo architettonico e prospettico fra le scene .
In una natura idealizzata, rispondente al ricordo dell’ ambiente amato ed umile delle proprie origini, quel mondo diventa mito ed il realismo magia, in virtù della luce che costruisce le masse con lo sfumato e gli effetti luministici.
Nell’elegia di un tempo tramontato, divenuto aspirazione ad un’ideale serenità, nella velatura di lirismo che avvolge la figurazione, si ripensa ad una produzione letteraria da sempre volta a cantare l’autenticità della vita nella natura e si avverte il respiro virgiliano, unitamente ad un riflesso del “Cantico delle creature”.